lunedì 16 aprile 2012

Intervista al filosofo Gianfranco Dalmasso





1) Professor Dalmasso, qual'e' la sua posizione circa il recente dibattito tra Gianni Vattimo e Maurizio Ferraris?
Secondo lei, possiamo considerarci ancora postmoderni o stiamo per diventare neo realisti, ritornando al "pensiero forte"?

Il dibattito fra New Realism e filosofie dell’interpretazione sembra arenarsi fin dal suo nascere in una sorta di match pari contrassegnato da una insormontabile sterilità. La preoccupazione da cui è nato il “Manifesto” proposto da Maurizio Ferraris ha certamente individuato una deriva nichilistica del pensiero postmoderno insostenibile proprio a partire dall’interna esclusione di ogni punto di riferimento. D’altra parte, la filosofia ermeneutica nella seconda metà del secolo scorso ha avuto il merito di porsi come domanda radicale sul significato delle cose al di là dei punti di vista e delle visioni del mondo. La sua “debolezza” ne ha costituito certo un limite, talvolta compiaciuto, ma d’altra parte ha rilanciato incessantemente un disagio, un imbarazzo che è connaturato a una domanda e ad una mancanza da cui nasce l’umano.


2)Come giudica questa attuale riscoperta del realismo, dopo 30 anni di "pensiero debole"' questa riscoperta della realta' dopo tanta ermeneutica?

L’interpretazione non può essere certo – dicevano i latini – “sibi permissa”. Diremmo oggi: a ruota libera. Che però il limite e il punto di riferimento a tale deriva sia una realtà esterna, cioè le cose come si danno nella loro immediatezza sensibile e secondo il “buon senso” mi sembra una posizione molto ingenua. Il filosofo comunque non si accontenta di toccare il tavolo e bere la birra, ma è filosofo in quanto si chiede che significato ciò abbia per lui.


3)Cosa pensa della lettura debolista della religione che dà Vattimo, specialmente in "Credere di credere"? Che spazio c'è oggi per la religione e per la religione intesa in che modo? Che rapporto può esserci tra questo ritorno al "realismo" di cui parlano alcuni e le religioni confessionali, le Chiese (in particolare il cattolicesimo)? Questo ritorno al realismo è soprattutto o soltanto un trionfo della scienza, delle tecnoscienze, o può significare anche un nuovo spazio e una nuova vitalità per le religioni, che nella filosofia contemporanrea (da Nietzsche alla società dei consumi e all'ermeneutica e al postmodernismo di Vattimo, passando attraverso le ideologie politiche degli anni Sessanta-Settanta) sono state o uccise (descritte come moribonde o morte) o indebolite?

In “Credere di credere” Vattimo intende criticare una concezione ristretta, feticizzata, della ragione. In questo modo, tuttavia, in assenza di un recupero di più larghe e tradizionali concezioni della razionalità, che implicano un andare al di là, una “trascendenza”, egli è costretto a rinchiudere il luogo del conferimento del significato in una soggettività che non può che arrendersi a se stessa.
D’altra parte non credo che sia una concezione della realtà, questa volta essa stessa feticistica, a sbloccare questa impasse. La chance della ragione che cerca di affrontare la domanda sulla sua origine, consiste, io credo, nello sfuggire al puro esercizio di un dominio dei significati, sia di quelli di cui parlano le neuroscienze, sia di ideologie totalitarie, magari perseguenti un fine religioso.

4) In base agli sviluppi sociali, economici e politici del mondo contemporaneo, quale reputa che sia il ruolo della filosofia, dei filosofi, oggi?
Quali sono, parafrasando Vattimo, i fini della filosofia contemporanea?

Credo che il fascino inesausto della filosofia non stia tanto nella potenza, pur impressionante, del suo status disciplinare, cioè i grandi testi dei grandi filosofi, ma piuttosto nella passione di una domanda sulla propria origine e sull’origine del proprio desiderio. Al filosofo, io credo, non può chiedersi un sostegno alla soluzione delle questioni sociali, economiche e morali, quanto la giustizia, più radicale, di un discorso che sia in grado di porre delle domande sul rapporto tra sé e tali problemi. Il “fine” della filosofia mi sembra essere un discorso che non abbia la forma del dominio e che proprio per questo possa accogliere un uomo restituito a se stesso.

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